Notte Bianca Nazionale dei Licei Classici 2016/2017

 

Liceo Classico Statale “Giuseppe Garibaldi” Castrovillari

 

Notte Bianca Nazionale 13 gennaio 2017

 

Lo studente liceale Salvatore Raffa pone al prof. Leonardo Di Vasto la seguente domanda: perché uno studente oggi deve studiare il greco classico?

 

Risposta: Il Sindaco, avv. Domenico Lo Polito, e il Preside, prof. Walter Bellizzi, nei loro pur concisi interventi, hanno fatto riferimento all’importanza degli studi classici nella società attuale. Pertanto, proseguendo sul percorso già aperto, enucleerò, succintamente, alcune riflessioni idonee a dare una risposta, se non esaustiva, almeno stimolante, al quesito posto con una formulazione asciutta e perentoria, ma pure intrisa di curiositas, dallo studente. Anzitutto, vorrei fare una considerazione di carattere generale pertinente alla salvaguardia del passato, dato che attraverso il greco classico conosciamo un mondo lontano con una distanza cronologica plurimillenaria rispetto a quello in cui viviamo e, pertanto, del tutto diverso nell’assetto istituzionale, nell’attività politica, nell’organizzazione sociale, con una visione culturale ‘altra’[1]. Come ogni popolo geloso del suo passato[2], questo nostro che è alla base della civiltà occidentale abbiamo il dovere di conoscere e custodire: la sua conoscenza e custodia sono segni di civiltà; la sua rimozione e la

sua ignoranza sarebbero, invece, segni di inciviltà. D’altra parte, «nessun vero futuro – ha osservato il narratore londinese John Berger, spentosi il 2 gennaio di quest’anno all’età di novant’anni – […] può essere infatti realizzato senza un senso del passato. Il senso del passato, che non ha niente a che vedere con un atteggiamento conservatore, serve a comprendere il senso di quel movimento che può organicamente portare al futuro»[3]. Dobbiamo essere consapevoli che la cesura con il nostro passato renderebbe monca la conoscenza del processo storico – sia pure lungo, anzi lunghissimo: le acquisizioni culturali, letterarie, artistiche sedimentate nel corso del tempo permangono, a livello più o meno sotterraneo, e non si depongono come vesti lise –  con risvolti negativi ai fini della elaborazione e progettazione del nostro futuro[4].   

Abbandonando le considerazioni generali per alcune specifiche, idonee, cioè, a dare una motivazione allo studio del greco antico e, pertanto, dell’antica civiltà greca nella società attuale da parte dei giovani, è bene sottolineare che il popolo greco è stato innovativo, anticonformista, incline a interrogare il reale, a tentare nuove avventure, a fare esperienze inedite, da cui trarre, dopo attenta riflessione e sistemazione concettuale, nuova conoscenza da investire e spendere nella vita di tutti i giorni e nella organizzazione sociale e politica. È un insegnamento non da poco che può fecondare la nostra cultura e la nostra società[5].

Molto interessanti, al riguardo, le considerazioni che leggiamo nel Timeo, 22a-b, di Platone: Solone, il poeta e statista ateniese vissuto tra la seconda metà del VII e la prima metà del VI secolo a. C., durante un suo viaggio in Egitto, incontrò a Sais, città sita nella zona del Delta del Nilo, i sacerdoti del luogo molto preparati sugli antichi eventi, τὰ παλαιά. Allora Solone, racconta il filosofo, cominciò a fare tante domande sulle origini dell’uomo, sulle prime forme di vita sulla terra ecc.: al che un sacerdote egizio molto vecchio, rivolto a Solone, disse: Ἕλλενες ἀεὶ παῖδές ἐστε, γέρων δὲ Ἕλλην οὐκ ἔστιν, «voi Greci siete sempre fanciulli, un Greco vecchio non esiste». Platone evidenzia un aspetto peculiare dei Greci: la loro straordinaria sensibilità culturale, la loro spiccata propensione a conoscere le origini e il senso dell’esistenza e a darsi una ragione dei fenomeni della natura. Il παῖς rappresenta il nuovo, la ricerca, la scoperta, che costituiscono il senso più profondo della vita umana, il γέρων, invece, il superato, la rinuncia, la stasi, che connotano la fine della vita. Platone, con le parole del sacerdote, continua: Νέοι ἐστέ τὰς ψυχὰς πάντες, «siete giovani tutti nelle anime»: οὐδεμίαν γὰρ ἐν αὐταῖς ἔχετε διʼἀρχαίαν ἀκοὴν παλαιὰν δόξαν οὐδὲ μάθημα χρόνῳ πολιὸν οὐδέν, «infatti, non avete in esse alcuna antica opinione acquisita da antica tradizione né alcuna conoscenza invecchiata». Il filosofo riprende la sua lapidaria definizione dei Greci e la motiva in modo più chiaro e circostanziato. I Greci tutti, nel loro sentire, sono giovani: se nella prima espressione l’antitesi è tra παῖς e γέρων, qui è tra νέοι e παλαιοί, ma con un’accentuazione del ‘vecchio’, di ciò che è vecchio, espresso con ἀρχαίαν, παλαιὰν, χρόνῳ πολιὸν: sembra un crescendo, una κλῖμαξ. L’uomo greco è spiritualmente propenso al nuovo, a liberarsi di opinioni scontate, a rimuovere la conoscenza appassita, perché è consapevole che essa ha bisogno sempre di essere rinverdita, riesaminata, rinnovata, altrimenti si trasforma in qualcosa di inservibile o in un dogma, che è negazione della ricerca, della scienza, e, pertanto, della vera essenza dell’uomo, per il quale «una vita senza ricerca», come dice Platone nell’Apologia 38a, «non è degna per l’uomo di essere vissuta», ὁ δὲ ἀνεξέταστος βίος οὐ βιωτὸς ἀνθρώπῳ. 

L’uomo greco privilegia l’approccio critico al reale per distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto: questo, come dice Platone, costituisce come il suo habitus naturale. Atteggiamento culturale paradigmatico importantissimo valido ieri come oggi, in una società investita dalla diffusione pervasiva, straripante dell’informatica, di nozioni ossificate, di competenze pratiche, inidonee a stimolare la crescita della coscienza critica. Tutto questo ha una ricaduta negativa a livello non solo culturale, ma anche sociale e democratico. Oggi, i nativi digitali, come rileva uno studio condotto di recente in dodici Stati USA, basato sulla proposta di test a 7.800 studenti, dalle scuole medie alle superiori, dallo Stanford History Education Group[6], hanno «difficoltà a distinguere la pubblicità dalle notizie, o a identificare le fonti delle news»; l’80 per cento dei quali non riesce a «distinguere la pubblicità redazionale dagli articoli fattuali»; ancora, gli studenti della secondaria superiore fanno «molta fatica a distinguere fonti autorevoli, indipendenti, dai disseminatori di bugie interessate». Pertanto, s’impone il problema della formazione critica dei giovani perché non siano manipolati dalla disinformazione invadente con conseguenze gravi per quanto riguarda la loro partecipazione alla vita sociale e politica e alla vita democratica della società.

E la democrazia è un bene inestimabile, è un valore indiscutibile, che i Greci hanno conseguito e hanno insegnato ai popoli loro contemporanei e a quelli futuri, e che è ancora attuale e da perseguire presso tanti popoli che vivono in condizioni di subalternità, se non di schiavitù.

A farci riflettere su questo valore imprescindibile nella vita umana e nei rapporti sociali e politici è ancora Platone nella Repubblica, VIII, 562: Socrate, discutendo di Stato perfetto con Glaucone, fratello di Platone, afferma che la democrazia, δημοκρατία, ha come massimo bene, κάλλιστον, la libertà. Questo bene è il fine della democrazia. In uno Stato governato secondo principi democratici puoi sentire affermare – dice Socrate a Glaucone – che la libertà è il più grande bene che esso possegga e che per questo motivo in questo Stato soltanto vale la pena vivere per chi sia di spirito libero, ὅστις φύσει ἐλεύθερος. Il rispetto delle regole, della legalità, del principio d’autorità salvaguarda l’ordinamento democratico. Se questo viene meno, tutto degenera e la democrazia crolla. Quando il padre si abitua a farsi simile al figlio e a temere i figli, dice Platone con efficacia, quando il maestro in tale Stato teme e lusinga gli scolari, e gli scolari s’infischiamo dei maestri, quando, in breve, i giovani si atteggiano a vecchi nelle relazioni e nel comportamento, e i vecchi sono in tutto condiscendenti con loro, allora non esiste più la libertà, ma solo l’anarchia. L’eccesso di libertà, ἡ γὰρ ἄγαν ἐλεύθερία, determina la fine della libertà e, di conseguenza, della democrazia. La libertà si coniuga con la democrazia e l’una e l’altra hanno le loro radici nella formazione. Pertanto, la scuola svolge un ruolo importante nel creare le basi su cui edificare lo Stato democratico che, per essere vitale, ha bisogno di cittadini liberi, non di sudditi, di cittadini non adusi ad eseguire, ma inclini a pensare.

L’importanza del pensiero nella vita dell’umanità e nel progresso della società è un’altra acquisizione della civiltà greca, che si delinea sin dai primordi della storia culturale di questo popolo. Se ci soffermiamo sulla prima opera che dà inizio alla letteratura europea, sull’Iliade, troviamo una chiara conferma di quanto è stato ora asserito. Nel libro terzo, il poeta ci presenta Elena che indica a Priamo e ai suoi consiglieri fermi su un bastione gli eroi achei schierati in battaglia: «Quello – dice – è il figlio di Laerte, il saggio Odisseo, πολύμητις Ὀδυσσεύς, che conosce ogni accorgimento e ogni pensiero profondo, εἰδὼς παντοίους τε δόλους καὶ μήδεα πυκνά», vv 201 e 202. Il poeta pone l’accento sulle capacità razionali, μήδεα πυκνά., dell’eroe. In un poema epico, un personaggio in vista, di primo piano come Odisseo, è esaltato non per le sue qualità epiche, ma per le sue doti intellettive. È un aspetto cui il poeta tiene e che ci tiene a sottolineare. Ne è una conferma il fatto che un vecchio saggio troiano, Antenore, dopo la descrizione di Elena, interviene per confermare quello che è stato appena detto. «O donna, quello che hai detto risponde alla piena verità, νημερτές». Antenore racconta che una volta Odisseo era venuto in missione a Troia insieme con Menelao: l’uno, Odisseo, è qualificato come δῖος, luminoso, l’altro, Menelao, come ἀρηϊφίλῳ, caro a Marte, versato nell’arte marziale. Il poeta marca con gli aggettivi la diversità dei personaggi: la guerra non era nelle corde di Odisseo, mentre era cara a Menelao. Antenore reca una testimonianza precisa, perché li ospitò in casa sua: pertanto, di entrambi ha conosciuto il carattere, φυήν, e i pensieri profondi, μήδεα πυκνά. «Quando si trovarono in mezzo ai Troiani riuniti, se stavano in piedi – racconta Antenore -, Menelao superava in altezza le larghe spalle di Odisseo, ma se stavano seduti il più maestoso, γεραρώτερος, era Odisseo»[7]. Il poeta si sofferma sul suo personaggio, l’osserva con partecipe attenzione: lascia affiorare la sua preferenza per Odisseo, che non ha l’avvenenza fisica di Menelao, ma dalla sua persona emana un quid di ieratico. Poi, passa a presentare l’oratoria dei due: fluente e stringata quella di Menelao, armoniosa e brillante quella di Odisseo. L’una è definita in tre versi, per l’altra ne ha bisogno di nove. Il saggio Odisseo, quando si alzava per parlare, rimaneva in piedi immobile e teneva gli occhi fissi a terra: era preso, sembra dirci il poeta, dall’elaborazione del suo λόγος, del suo discorso e del suo pensiero[8].

Alla stessa maniera Platone ci presenta Socrate nel Simposio 174d-175: Socrate, mentre si reca insieme col discepolo Aristodemo a casa di Agatone, di tanto in tanto, lungo la strada, si ferma a riflettere, a pensare, ἑαυτῷ πως προσέχοντα τὸν νοῦν. Ad Aristodemo che si ferma per attenderlo  dice di proseguire: pertanto, arriva da solo a casa di Agatone, che manda subito un ragazzo a vedere dove sia Socrate. Ritiratosi nel vestibolo della casa dei vicini, se ne sta immobile, ἕστηκεν: è una sua abitudine, dice Aristodemo, ἐνίοτε ἀποστὰς ὅποι ἂν τύχῃ ἕστηκεν, «talvolta, appartatosi, dovunque si trovi, se ne sta immobile». Platone usa per il comportamento di Socrate lo stesso verbo ἕστηκεν, ‘resta immobile’, che Omero aveva usato per Odisseo, στάσκεν. Il filosofo ritorna, alla fine dell’opera, 220c, su tale comportamento di Socrate: a parlarne è Alcibiade, che una volta si era trovato insieme con lui nel campo di Potidea. Preso da un qualche suo pensiero, συννοήσας, Socrate se ne stava lì immobile, εἱστήκει, sin dall’alba, a riflettere[9]; dato che non riusciva a venirne a capo, non desisteva, ma rimaneva lì fermo a indagare, εἱστήκει ζητῶν. Il συννοεῖν, il pensare, il meditare, assorbe totalmente Socrate, i cui discorsi contengono pensiero, νοῦν ἔχοντας ἔνδον, 222a. Socrate è d’aspetto sgraziato – somiglia molto a un Sileno, 215a -, ma esprime concetti che consentono di acquisire la bellezza e la bontà, 222a. Alcibiade è dotato di bellezza, ma esteriore, quella di Socrate è interiore, scaturisce dalla ricchezza interiore. Dal discorso di Alcibiade affiora con chiarezza una ««tensione esteriorità/interiorità»[10]. Anche da questo punto di vista la figura di Socrate ci richiama alla mente il personaggio omerico.

Odisseo – scrive, infatti, il poeta epico -, «quando cominciava a parlare e a pronunciare parole simili a fiocchi di neve d’inverno, allora nessun altro uomo avrebbe osato sfidarlo: e a noi, allora, non importava più il suo aspetto», vv. 221-224. Omero pone l’accento sulla capacità oratoria del suo personaggio, che non è presentato  nelle vesti dell’eroe, ma in quelle dell’uomo che pensa, che articola il suo pensiero in un discorso che, sorretto dall’acume delle argomentazioni, non adorno di espressioni retoriche (i versi del poeta non autorizzano affatto ad ipotesi del genere), cattura l’attenzione e l’interesse dell’uditorio a tal punto che il suo aspetto, εἶδος, non conta più, è rimosso, è obliato. La coppia omerica Odisseo/Menelao sembra echeggiare in quella platonica Socrate/Alcibiade. Che Platone nel delineare qui la figura di Socrate possa essersi ricordato di questo Odisseo iliadico non appare singolare tenendo presente che il filosofo conosceva molto bene la poesia di Omero. In particolare, nella Repubblica, nel contesto del discorso sulla formazione di giovani designati a divenire ottimi reggitori dello Stato, cita frequentemente e con rispetto Omero, pur distinguendo i messaggi ideali positivi da quelli negativi ricavabili dai suoi versi: πολλὰ ἄρα Ὁμήρου ἐπαινοῦντες, ἀλλὰ τοῦτο οὐκ ἐπαινεσόμεθα, II, 383a, 7, «pur lodando molte cose di Omero, questa, certo, non la loderemo»[cioè che Zeus sia ingannevole, inviando un sogno menzognero ad Agamennone]; ταῦτα καὶ τοιαῦτα πάντα παραιτησόμεθα Ομηρόν τε καὶ τοὺς ἄλλους ποιητὰς μὴ χαλεπαίνειν ἂν διαγράφωμεν, III, 387b, 1-2, «pregheremo Omero e gli altri poeti di non prendersela a male se cancelliamo queste e tutte le altre cose simili» [cioè i discorsi che incutono paura della morte: i fanciulli e gli uomini devono essere coraggiosi e, pertanto, temere la schiavitù più che la morte]; τὰ δὴ τοιάδε φήσομεν οἶμαι καλῶς λέγεσθαι, οἷα καὶ Ὁμήρῳ Διομήδης λέγει, III, 389c, 4-5, «diremo, allora, credo, che tali cose  che Omero fa dire a Diomede sono dette bene» (cioè quelle di accogliere il suo consiglio di eseguire gli ordini del comandante, di Agamennone).

La voce che usa Platone per indicare il pensiero è νοῦς, quella cui ricorre Omero è μῆδος. Questa voce ha la base in μηδ- che esprime la riflessione, il pensiero; il verbo μήδομαι significa’ io penso’; da questa base deriva il nome del mitico personaggio femminile Medea, la saggia. Voci latine come ‘meditor’, medito, ‘modestus’, modesto, ‘moderare’, moderare, hanno la medesima base: il primo verbo indica l’attività razionale, l’aggettivo il comportamento di chi fa uso della ragione, il secondo verbo esprime l’agire equilibrato che scaturisce da riflessione[11]. Sono parole che usiamo quotidianamente e che racchiudono un significato di ascendenza plurimillenaria.

Ebbene, tutto questo ci è trasmesso dal Liceo classico, un’istituzione che, sorta nel 1859 con la legge Casati del Regno di Sardegna, ancora oggi è solida e capace, pur tra difficoltà e incomprensioni, di reggere e di arginare la deriva propria di una società liquida, perché esige rigore nello studio e promuove il pensiero critico: l’uno e l’altro sono alla base della formazione di una persona libera. Pertanto, anche nell’attuale società, dominata dalla globalizzazione e dal capitale finanziario, soltanto un osservatore superficiale può considerare il Liceo classico ove si studia il greco cioè la civiltà greca una scuola fuori moda, un reperto museale. Chi rifletta sui contenuti culturali trasmessi, alcuni dei quali ho succintamente indicato, non può non apprezzare il ruolo che tale istituzione ha svolto nel passato e che continua a svolgere oggi, nel contesto di una società bacata dall’ossessione del successo e dell’arricchimento, e magari dire, come il vecchio Johann Buddenbrook, il capostipite della famiglia borghese del romanzo di Thomas Mann, conversando a casa sua con ospiti durante «un pranzetto molto semplice», (siamo nell’anno 1835):«Ideali pratici … No, non è roba che fa per me! Adesso spuntano gli istituti professionali e tecnici e le scuole commerciali, mentre il ginnasio e l’istruzione classica diventano improvvisamente sciocchezze e non si pensa ad altro che a miniere …  a industrie … e a far quattrini … Bene, bravi! Tutte belle cose. Ma a lungo andare diventano un po’ stupide … no?»[12].    

A conferma della importanza formativa degli studi classici nella società attuale egemonizzata dall’economia finanziaria illuminanti sono le parole che Carlo Azeglio Ciampi, Presidente emerito della Repubblica Italiana (1999-2006), ha rivolto, nel corso di un incontro, ai giovani dell’Università di Pisa che gli «avevano posto domande sulla “compatibilità”»  della sua «originaria formazione  umanistica con i suoi percorsi professionali successivi»: il grande, compianto statista, spentosi il 16 settembre 2016, ha affermato di non aver «trovato differenza tra cercare di interpretare e di studiare le statistiche, analizzare i fatti dell’economia reale e finanziaria, e lavorare sui frammenti dei lirici greci e latini. In fondo, il metodo di lavoro, il modo di affrontarlo è analogo. È diversa la materia. Bisogna rendersi conto dell’origine delle cose, approfondire, scavare, per capire cos’è che muove l’economia di un paese»[13].

 

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[1] Sul binomio alterità/continuità che deve connotare l’approccio al mondo classico si è soffermato Maurizio Bettini nel suo recente libro A che servono i Greci e i Romani?, Einaudi, Torino 2017, pp. 81 sgg.

[2] Pertinenti, al riguardo, sono le considerazioni di Bettini, A che servono i Greci, cit., pp. 64-65, su altri popoli che hanno cura delle loro tradizioni: «il nostro paese – ha scritto – è uno fra i pochi in Europa, se non l’unico, che ha mantenuto obbligatorio l’insegnamento del latino per alcuni licei e anche quello del greco per i licei classici. Questa eccezionalità italiana […] ha suscitato e continua a suscitare polemiche, non sempre intelligenti, e dibattiti, non sempre interessanti. Per la verità noi italiani sbagliamo a vergognarci, o peggio, di questo attaccamento al nostro passato linguistico e culturale, quasi fossimo rimasti gli unici a farlo in un mondo che “guarda avanti”. […: Ci sono] Paesi che, nei loro sistemi scolastici, hanno avuto cura di preservare il proprio “latino”, cioè la lingua e la cultura che costituiscono la loro “classicità”. È questo il caso del Giappone, nelle cui scuole è d’obbligo sia l’uso dell’ideogramma cinese sia quello dei testi scritti in giapponese antico; allo stesso modo, nelle scuole della Repubblica popolare è ancora generale il rapporto con i testi del cinese classico; mentre in India il sanscrito è riconosciuto fra le lingue ufficiali  del paese (che ne ha ben 22)  ed è studiato come terza lingua, accanto all’inglese, nelle scuole degli Stati in cui l’hindi è lingua locale. Un discorso ancor più complesso, ma non meno interessante, vale infine per il mondo arabofono, in cui l’arabo coranico, e le relative scritture, costituisce un aspetto fondamentale della formazione culturale».

 

[3] «Il Manifesto», 3 gennaio 2017. Di recente, la casa editrice Contrasto ha pubblicato il volume di John Berger con fotografie di Jean Mohr Il settimo uomo. Un libro di immagini e parole sull’esperienza dei lavoratori migranti d’Europa, titolo originale A Seventh Man, traduzione e cura di Maria Nadotti, Roma 2017.

[4] Roberto Napoletano, direttore del quotidiano Sole24ore, nella sua rubrica Memorandum del Domenicale del 12 febbraio 2017, rispondendo a un docente amareggiato per il fatto che è stata eliminata «la disciplina della Storia dai test finali che misurano le competenze in uscita degli studenti della scuola di primo e secondo grado a partire dal 2018», ha scritto: «L’albero della vita ha le sue radici e queste appartengono alle persone, donne e uomini, ma ancora di più alla comunità e alla sua storia civile, custodiscono insieme valori, insegnamenti, errori, e malefatte, compongono il patrimonio condiviso di un popolo. Senza la consapevolezza di quel capitale, senza capire chi siamo e da dove veniamo, sarà molto difficile fare tanti passi in avanti e costruire un futuro all’altezza del passato in un mondo globalizzato percorso da brividi nazionalisti, molti squilibri, piccole e grandi depressioni. La scienza, la creatività e la tecnologia, in una parola il progresso, per quanto possa apparire paradossale, hanno bisogno per svilupparsi in modo duraturo di una solida base di conoscenze storiche, contenuti e metodo di interpretazione, perché l’innovazione è il risultato finale di qualcosa che mette insieme identità e intuito degli inventori e ha il suo motore nello spirito della storia. […] A me è rimasto il gusto profondo di vivere il presente senza mai perdere la voglia di conoscere il passato per costruire il futuro».

[5] Cfr. le acute osservazioni di Ranuccio Bianchi Bandinelli nella sua Presentazione della Storia e Civiltà dei Greci, I, Bompiani, Milano 1978, p. VII.

[6] Cfr. «la Repubblica», 19.01.2017, p. 31

[7] Di Benedetto osserva che «il discorso di Antenore […] è improntato a un atteggiamento di grande simpatia nei confronti dei due Greci»; inoltre, alla nota 11, ibid., afferma che l’aggettivo γεραρός, con cui Priamo, al verso170, qualifica Agamennone e che Antenore riprende, intensificandolo col comparativo e attribuendolo a Odisseo, «non è attestato altrove nell’Iliade», Vincenzo Di Benedetto, Nel laboratorio di Omero, Einaudi, Torino 1994, p. 19.

[8] Gli studiosi, nel commentare questi versi, si sono limitati a sottolineare le peculiarità oratorie di Menelao e Odisseo, non prendendo affatto in considerazione i μήδεα πυκνά, in particolare, di Odisseo, che costituiscono  il suo aspetto più originale e innovativo. Infatti, Wolfgang Schadewaldt ha osservato: «È degno di nota come il poeta abbia caratterizzato qui due tipi di discorso che sarebbero stati poi illustrati dalla retorica dei secoli successivi: quello piano e chiaro (aphelés, tenue) e quello elevato, grandioso (megaloprepés, grandiloquum)» , Omero, Iliade, introduzione, Bur I, Milano 1999, traduzione di Claudio Groff, p. 49; Maria Serena Mirto nota che la diversità dell’aspetto fisico si registra pure nell’eloquenza: «chiaro, conciso e fluente nel parlare Menelao, ma il più anziano ed esperto Odisseo dispiegava una abilità retorica che Antenore non ha dimenticato», poi, aggiunge un’osservazione con cui rileva la novità del personaggio: «Ciò che colpisce della caratterizzazione di Odisseo è il forte contrasto fra apparenza e qualità interiori, che non è in linea con la concezione arcaica dominante nei poemi», Omero, Iliade, traduzione e saggio introduttivo di Guido Paduano, commento, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, p. 892; M. M. Willcock, riguardo ai vv. 192 sgg., fa un’osservazione stringata senza toccare problemi specifici:«Notice the splendid description of the powerful, stocky Odysseus. It is like a portrait from life», A commentary on Homer’s Iliad. Books I-VI,  Macmillan St. Martin’s Press, London 1970, p. 106.

[9] Riguardo a tale comportamento, Susanetti (Platone, Il Simposio, traduzione di Carlo Diano, introduzione e commento di Davide Susanetti, Marsilio, Venezia 1992, p. 190) ha avanzato l’ipotesi che possa trattarsi di «una pratica ascetica»: ipotesi che, sulla scorta del testo platonico, non mi sembra plausibile. Platone scrive che Socrate, raccolto in sé, si ferma a pensare: il raccoglimento è funzionale alla riflessione. In seguito, però, Susanetti, nel commento a 222a, p. 223, scrive:«Il discorso di Alcibiade è centrato sulla distinzione tra l’esteriorità e l’interiorità: le sembianze di Socrate contrastano con la sua reale natura, con la sua interiore virtù».

[10] Tale definizione è di Maria Michela Sassi, Indagine su Socrate. Persona filosofo cittadino, Einaudi, Torino 2015, p. 121.

 

[11] La stessa base troviamo nella voce osca med-diss, che corrisponde al latino judex: presso gli Osci era il nome del magistrato ‘che mostra il diritto’. La lingua osca era parlata in Calabria dai Brezî: i toponimi Colloreto, in territorio di Morano (CS) e Cosoleto in territorio reggino hanno una base osca kosol, che significa ‘nocciòlo’.

[12] Thomas Mann, I Buddenbrook, traduzione di Ervino Pocar,  Mondadori, Milano 1970, p. 20.

[13] Carlo Azeglio Ciampi, Da Livorno al Quirinale. Storia di un italiano. Conversazione con Arrigo Levi, il Mulino, Bologna 2010.

 

 

  • Questa risposta, comunicata a braccio durante l’incontro, è stato rielaborata e messa per iscritto nei giorni successivi in seguito alla richiesta di docenti e studenti.

 

                           

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