Amore dolceamaro

AICC Delegazione di Castrovillari 2009

Amore dolceamaro

Prologo musicale

Premessa

La scelta culturale dell’Associazione di presentare una silloge della poesia amorosa greca e latina ha il fine di avvicinare al nobile patrimonio artistico della classicità un largo pubblico, che può, in tal modo, scoprire o riscoprire i valori di un mondo lontano, per taluni aspetti vivi ancora oggi, nella società delle immagini plastificate e della fluviale informazione.

Proprio le straordinarie, possiamo dire, sconvolgenti trasformazioni della società contemporanea, con la loro pervasività, seducono le nuove generazioni, inducendole a raffreddare, a sminuire l’interesse per il mondo antico, se non a reciderne i legami: con un mondo remoto, cioè, che non avrebbe più nulla da dire, la cui conoscenza non sarebbe più spendibile nell’attuale processo produttivo e contesto culturale, per la sua diversità, per la sua lontananza. Questa, però, ci esorta a riflettere sul lungo cammino percorso dall’uomo europeo, che, non può, pertanto, ancorare l’inizio della storia all’esplosione della rivoluzione informatica, senza, comunque, autorizzarlo a domandare all’antico il senso della sua vita attuale o quale sarà il suo domani.

Con l’antico, certo, siamo di fronte ad una diversità rispetto all’oggi, che deve essere acquisita in quanto tale, cioè nella sua peculiarità: se, nel corso di questo incontro, vi saranno proposti raffronti con autori, moderni, italiani e stranieri, essi hanno il fine di stimolare un approccio disinvolto all’antico, senza, cioè, contemplarlo come un monumento.

Tutto questo intendiamo proporvi noi giovani, sperando di coinvolgervi, con il nostro entusiasmo, nella riflessione su un antico che ci portiamo dentro, su scoperte originali conseguite  da quella civiltà, che educa alla libertà, e nel godimento di una raffinata produzione poetica.

Intermezzo musicale

Coordinatore

Il tema di questo incontro è l’amore, che si insinua, osserva Platone (Crat. 420), nell’animo di chi lo prova attraverso gli occhi: sembra agli antichi greci una potenza autonoma, invincibile, tirannica.

Canta il tragediografo greco Euripide, vissuto nel V sec. a. C.:

o Amore, o Amore:

                                  gli occhi stillano desiderio.

                                Il piacere dolce incatena

                               l’animo di chi s’innamora.

                             L’Amore è il tiranno degli esseri umani:

                            è la loro sventura, la loro rovina. (Ipp., 525-527, 538, 541)

 

L’amore assume le fattezze della divinità che distribuisce agli esseri umani dolcezze e amarezze. Prima di Euripide, la poetessa greca Saffo aveva definito il sentimento amoroso  dolceamaro. L’antinomia di tale sentimento è bene espressa dall’icastica definizione.

L’intento è quello di cogliere gli aspetti, le nuances che l’amore assume, attraverso i secoli e le conseguenti trasformazioni della società, e grazie alla peculiare sensibilità di ciascun poeta.

Il tema attraversa ogni genere letterario, taluno in modo più o meno tangenziale; ovviamente, è la lirica a  monopolizzarlo, ad accaparrarsene l’esclusiva.

Pertanto, se ci affacciamo all’epica, troviamo spunti interessanti nel grande iniziatore della letteratura europea, cioè in Omero.

Il sovrano dei Feaci accoglie Ulisse e gli dona, dopo tante peripezie, il ritorno in patria, con una sua nave. La figlia del sovrano, la principessina Nausica, che ha nutrito il sogno di avere al suo fianco l’affascinante eroe greco, al momento della partenza gli rivolge un affettuoso saluto, che è, in fondo, una pudica dichiarazione d’amore.

 

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Voce narrante

Nausica, bella come una dea,

sta accanto a una colonna della splendida reggia,

posa, incantata, gli occhi su Ulisse,

non vede che lui.

Poi, riesce ad esprimere dolci parole:

“O straniero, io ti saluto.

Giunto in patria,

ricordati di me.

                                      A me tu devi la vita”.    (Od., VIII, 457-462)

 

Intermezzo musicale

 

Coordinatore: Un’altra principessina orientale incontra un altro eroe straniero; se ne innamora perdutamente; lo aiuta ad affrontare una prova molto pericolosa, superata la quale, tornerà nella sua terra, nel lontano Occidente: lei è Medea e Giasone è l’eroe.

La fanciulla ha trovato in Apollonio Rodio il suo poeta, che, nel III sec. a. C., 500 anni circa dopo Omero, rivoluzionando l’epica, analizza finemente l’animo tremulo del suo personaggio femminile.

Giasone deve compiere una missione: portare in Grecia dall’Oriente, dalla terra di Medea, la pelle aurea di un ariete, lì custodita. Medea gli dà tutti i suggerimenti necessari a superare il rischioso cimento, contro la volontà del sovrano, che è suo padre. Poi, lo saluta, triste, pensando che non lo rivedrà più.

Voce narrante

Tacque e abbassò gli occhi a terra.

Calde lacrime rigavano il suo bel volto.

Lui doveva errare per mare, lontano lontano.

Poi, sollevando gli occhi, gli si rivolse ancora,

con parole struggenti.

Gli prese la destra.

Il pudore scivolò dai suoi occhi.

“Ricordati,

tornato un giorno a casa,

il nome di Medea.

Anch’io,

pur lontana,

                                          ti ricorderò”.        (Arg., III, 1063-1071)

 

Coordinatore:            L’amore di questa giovinetta ha catturato l’attenzione di poeti antichi e moderni, e di paesi diversi.

Nel 1821, il drammaturgo viennese Franz Grillparzer (1791-1872) porta sulla scena una sua Medea, che è una donna che ha rotto con la sua famiglia, vive da emigrata priva di ogni diritto in una terra straniera, è madre di due figli che ha dato a Giasone, l’eroe che l’ha condotta con sé e che ora s’accinge ad abbandonarla per sposare la donna con cui ha condiviso la fanciullezza.

Giasone è presentato come un uomo che lascia e prende le donne secondo le sue convenienze, i suoi capricci, un playboy che le utilizza a suo piacimento.

Ascoltiamo quello che dice Medea alla ingenua principessina greca, promessa sposa, nella traduzione di Claudio Magris.

 

Voce narrante

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 Tu non lo conosci,

ma io sì,

e a fondo!

C’è solo lui,

esiste solo lui, nel vasto mondo,

e tutto il resto, gli altri,

sono soltanto strumento delle sue gesta.

Pieno di sé,

badando […] solo alla propria immagine,

lui gioca con la sua felicità

e con quella degli altri.

Se s’incapriccia della fama,

è pronto ad abbattere chiunque,

se vuole una donna se la prende

e anche se spezza il cuore di qualcuna,

cosa gli importa?

Quello che lui fa è bene,

                               perché è bene ciò che lui vuole.     (Medea, II atto)

 

Coordinatore: La principessina colca, quando approda, nel 1949, col nostro Corrado Alvaro (1895-1956), in terra bruzia, è, ormai, una donna stanca, prostrata, avvilita: non chiede altro per sé e per i suoi figli che un angolo di terra, una casa in cui sia padrona di sé e dei suoi figli, e accanto un fiumicello per confine. Ma  tutto questo le è negato. Alla vecchia ancella che le ricorda il ventilato progetto di partire, di andar via dal suolo greco, Medea risponde:

Voce narrante

Si parte finché si spera

di fare quell’incontro che deciderà della nostra vita.

Anche se tu esci per la strada della tua città,

speri di fare quell’incontro.

Domani, forse.

E poi domani.

Finché la tua sorte è ancora sospesa.

Ma io, chi debbo più incontrare?

Io feci il mio incontro.

Era lui, Giasone.

Fu la sua nave Argo.

Fragile, sul mare deserto e ancora selvaggio del mio regno.

Lui scese per primo.

E io lo vidi.

Lo conobbi.

Lui.

Era il mio incontro.

Ma poi, quando la vita è vissuta, si temono gli incontri.

                                                                                         (Lunga notte di Medea, I Tempo, III scena)

Intermezzo musicale

 

Coordinatore: Restando nella nostra terra, e tornando alla poesia greca, possiamo ascoltare uno struggente canto amoroso di un poeta vagabondo, vissuto nel VI secolo a. C.: Ibico di Reggio.

L’amore è un despota: incatena il suo cuore, non gli dà pace, in ogni stagione, a differenza della natura che conosce la fioritura amorosa solo in primavera.

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Voce narrante

In primavera,

i meli cotogni,

imbevuti dell’acqua dei canali,

e la vite,

rigogliosa sotto gli ombrosi tralci,

fioriscono.

A me l’amore mai pace non dà,

ma come vento di tramontana,

impetuoso,

bruciando in modo pazzesco,

recondito,

smodato,

violento,

inesorabile,

monta la guardia

                       al mio cuore.  (Fr. 286 D)

 

Coordinatore: Un paio di generazioni prima di Ibico, una poetessa mediterranea ha intonato il più bel canto d’amore per l’umanità europea, ha tessuto, si può dire, un canto amoroso universale: Saffo.

La sua poesia, pur alludendo a un contesto cultuale, religioso – Afrodite, la dea dell’amore, è spesso invocata -, tuttavia, non esprime la Weltanschauung di “una casta religiosa”, ma i sentimenti di una donna che rivendica i suoi diritti, la forza di una passione prorompente, scelte esistenziali che s’affrancano da tabù e s’avviano sul sentiero, lungo e angusto, della laicizzazione.

Ascoltiamo la sua voce attraverso un breve frammento, che può rappresentare l’exemplum dell’intero suo canzoniere.

Voce narrante

La tua visita è un bel regalo.

Sentivo molto la tua mancanza.

Hai rinfrescato il mio cuore

                    bruciante di passione.   (Fr. 48 D)

 

Coordinatore: La poesia amorosa al femminile rinasce, circa tre secoli dopo, in Magna Grecia, precisamente a Locri, ancora nella nostra terra, grazie a una poetessa che si compiace di porsi sulla scia di Saffo.

È Nosside, che ci trasmette un vivido telegramma d’amore.

Voce narrante

L’amore? Che c’è di più dolce?

Ogni altra dolcezza è posticcia.

Il miele? Sa d’amaro al confronto.

Così la pensa Nosside.

Chi non ha amato

                                                 ignora la qualità delle rose, i suoi fiori.       (Ep., A. P., V, 170)

 

Intermezzo musicale

Coordinatore: Col passar dei secoli, in Grecia, il costume evolve, la mentalità muta, i rapporti sociali si intensificano e smussano le loro rigidità. La donna greca, dal III sec. a. C., comincia ad

acquisire una sua  autonomia, un suo ruolo nella società. Di tale mutamento è indizio l’interesse dei

 

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poeti per le figure femminili, delineate spesso con garbo, in punta di penna.

Asclepiade è un precoce poeta di Samo, vissuto nel III sec. a. C., che calamitò intorno a sé poeti provenienti da tutta l’area mediterranea, come Edilo di Atene e Socle di Reggio.

La sua poesia d’amore ha un tono delicato, suasivo. Ecco una sua creatura, Nicàrete, una ragazza che ha preso una cotta per un giovane dagli occhi splendidi.

Voce narrante

Nicàrete, con il bel viso segnato dalla passione amorosa,

di continuo s’affaccia all’alta finestra.

Non le danno pace, o Afrodite, gli occhi luccicanti

                                        e seducenti di Cleofonte fermo sulla strada.        (Ep., A. P., V, 153)

 

Coordinatore:  Un sentimento amoroso ludico connota un’altra indimenticabile giovinetta, seducentemente sbarazzina, schizzata da questo poeta.

Voce narrante

Un giorno scherzavo con l’affascinante Ermione

che indossava, o Afrodite, una cintura ricamata a fiori,

e torno torno v’era scritto a lettere d’oro:

                                   “Amami e non te la prendere se sono di un altro”. ( Ep., A. P., V, 158)

 

Coordinatore: Un commediografo come Menandro fa dell’amore il leit motiv della sua opera. Nelle sue commedie, basilare è la relazione amorosa, presentata con grande finezza psicologica, che trova sbocco nel matrimonio: in tal modo, il giovane innamorato risolve la crisi in cui è caduto e che potrebbe turbare, se non incanalata in quella soluzione istituzionale, l’assetto rigido e compassato di una società borghese.

Il personaggio più sorprendente del teatro comico menandreo è quello del soldato innamorato: ad es., Trasonìde (L’uomo odioso) ha in casa una giovinetta, sua prigioniera, l’ama profondamente, ma non pensa minimamente a usarle violenza. Quella donna è una persona, non un oggetto. L’amore è corresponsione di sentimenti.

Polèmone, un altro soldato, che è stato, in un momento di gelosia, impulsivo nei confronti della giovinetta che ama, così si esprime:

Voce narrante

Glicera mi ha lasciato, mi ha lasciato.

Tu che sei suo amico e in passato spesso

hai parlato con lei, va’, recale un messaggio.

 

Io qualche torto ce l’ho,

                                        non l’ho trattata sempre con rispetto.  (La donna tosata, 256-260)

 

Coordinatore: La guerra stravolge i rapporti, calpesta ogni diritto. Il soldato che fa violenza sugli inermi, che stupra le donne, non è una figura soltanto del passato, purtroppo. Ebbene, Menandro capovolge il luogo comune, influenzato dalla filosofia del suo tempo che elaborava una profonda riflessione sui valori morali.

Tuttavia, in una società aperta, polietnica, economicamente dinamica, com’era quella ellenistica, che va dal III al I sec. a. C.,  il sentimento amoroso subisce uno svilimento. La mercificazione, insomma, fagocita  pure l’amore.

Filodemo, stimato da Cicerone per l’eleganza e il realismo della sua poesia, fa riferimento    a questo grave problema in un componimento vivace e spigliato. Originario della Palestina, visse nel I sec. a. C. Tra il 75 e il 70, venne in Italia, ove visse a lungo, dimorando a Napoli e a Ercolano e divenendo un punto di riferimento per gli intellettuali di Roma, che apprezzarono, oltre che la sua produzione poetica, anche quella filosofica.

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Voce narrante

(uomo) : Ciao

(donna) : Ciao

(uomo) : Come ti chiami?

(donna) : E tu?

(uomo) : Non avere fretta.

(donna) : Pure tu.

(uomo) : Sei libera?

(donna) : Sempre, per chi mi ama.

(uomo) : Vuoi restare a cena con me, stasera?

(donna) : Se tu vuoi …

(uomo) : Bene. Quanto ti devo per la presenza?

(donna) : Nulla mi devi prima.

(uomo) : To’, questa è nuova!

(donna) : Dopo aver trascorso la nottata con me, mi darai la giusta ricompensa.

(uomo) : Sei ammodo. Dove abiti? Ti manderò a prendere.

(donna) : Te lo dirò.

(uomo) : A che ora verrai?

(donna) : All’ora che vuoi.

(uomo) : Voglio subito.

(donna) : Vai avanti.                   (Ep., A. P., V, 46)

 

Intermezzo musicale

Coordinatore: La riflessione sulla subalternità della donna, sulla sua emarginazione, sulla sua funzione di riproduttrice non era estranea ai greci. Nel V sec. a. C., erano stati i sofisti, questi intellettuali d’avanguardia che tracciarono per primi le linee di un pensiero laico, a porre il problema dell’uguaglianza, della pari dignità uomo-donna. Euripide è il poeta di questo periodo più sensibile a tale messaggio, che traduce nel suo lavoro di tragediografo.

Medea, il personaggio femminile che ha costituito il modello per diversi poeti europei, come abbiamo visto, analizza lucidamente la sua condizione alla luce di un contesto socio-culturale  nettamente maschilista. Conosciuta la decisione di Giasone di abbandonarla, dopo averla condotta con sé dalla sua terra in Grecia e aver avuto da lei due figli, per sposare la principessina greca, rivolge alle donne di Corinto, che formano il coro, un razionale discorso di denuncia della condizione della donna.

Voce narrante

Donne di Corinto, sono uscita di casa,

per non essere da voi rimproverata. […]

Ma questo fatto, che mi è capitato

inatteso, ha rovinato la mia esistenza.

Colui che era tutto per me, il mio sposo,

si è rivelato il peggiore degli uomini.

Di tutte le persone che hanno un cuore

e una mente, noi donne

siamo la creatura più sventurata.

Anzitutto, dobbiamo comprarci,

con una ricca dote, un marito

e accettarlo come padrone del corpo.

Ti può capitare buono oppure,

rischio davvero grande, cattivo.

Il divorzio, poi, non è onorevole per le donne

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 né ci è possibile ripudiare lo sposo.[…]

Un uomo, quando gli pesa stare a casa,

esce e si distrae.

A noi, invece, tocca avere davanti

una sola persona.

(Medea, 214-215, 225-226, 228-237, 244-245, 247)

 

Coordinatore: Il problema della subalternità, dell’emarginazione della donna è presente, pure, nella società romana, che tutelava l’istituto familiare, nell’ambito del quale la moglie non aveva, soprattutto nel periodo arcaico, spazi di autonomia e possibilità di confronto paritario col marito, tutto assorbito dai suoi doveri, officia, sociali e politici. Pertanto, la donna finiva per assolvere alla funzione di riproduttrice.

L’uomo, poi, proprio come denuncia la Medea euripidea, se a casa si annoiava, andava fuori a distrarsi, in altri termini, andava ad appagare il suo eros in relazioni con puellae viles, con escort, diremmo oggi, o in relazioni extraconiugali. Questo avvenne nel I sec. a. C., ben rintracciabile nella letteratura latina.

I poeti, Catullo, prima, e Properzio, poi, avvertono il problema, che affrontano in senso, potremmo dire, rivoluzionario: la donna deve acquisire la sua libertà, che consente la piena realizzazione del sentimento amoroso all’interno di un rapporto leale, esclusivo, più profondo di quello sancito giuridicamente, proprio perché non funzionale aprioristicamente alla riproduzione. Amare, per Catullo, doveva significare intesa, condivisione, volersi bene, bene velle.

Il poeta voleva bene a una donna sposata, che canta col nome di Lesbia, in versi intrisi di ardente passione. Ascoltiamo la poesia dei Baci.

Voce narrante

Viviamo, Lesbia mia, e amiamoci,

e i pettegolezzi degli anziani sempre moralisti

valutiamoli, tutti, un fico secco.

Il sole  tramonta e spunta:

 noi, una volta trascorso questo po’ di tempo,

siamo destinati a dormire una sola notte eterna.

Dammi mille baci, poi cento,

poi altri mille, poi altri cento,

poi di seguito altri mille e poi cento.

Poi, quando avremo raggiunto molte migliaia,

le mescoleremo per perderne il conto

o perché nessun invidioso possa gettarci il malocchio,

       sapendo che i baci sono proprio tanti.    (V)

 

Coordinatore: Tale amore è raccontato, poeticamente, nella sua intensità, nei suoi chiaroscuri, e, nel suo fiorire, nella sua dolcezza primaverile, custodita gelosamente nella memoria.

Ecco un momento dell’attesa in casa:

Voce narrante

 Lì la mia candida dea col piede delicato

venne e sulla soglia consunta

la splendida pianta pose,

                              calcando la suola scricchiolante.     (LXVIII, 70-72)

Coordinatore: Il motivo echeggia, anche in moduli espressivi, nella famosa aria di Giacomo Puccini E lucean le stelle dalla Tosca: il pittore Mario Cavaradossi, in carcere per aver aiutato,

durante l’evasione, Cesare Angelotti, il console della Repubblica romana, rievoca i momenti di

felicità vissuti con la donna amata, Floria Tosca.

 

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Sentiamo il testo del libretto, composto da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa.

Mario Cavaradossi                          E lucevan le stelle … e olezzava

la terra, stridea l’uscio

dell’orto … e un passo sfiorava la rena.

Entrava ella, fragrante,

mi cadea fra le braccia …

Oh! dolci baci, o languide carezze,

mentr’io fremente

le belle forme disciogliea dai veli!

Svanì per sempre il sogno mio d’amore …

L’ora è fuggita …

e muoio disperato!

E non ho amato mai tanto la vita!

 

Coordinatore: Ora ascoltiamo la celeberrima aria cantata da Plácido Domingo nel marzo 1985 al Metropolitan Opera Theatre, direttore d’orchestra Giuseppe Sinopoli, regista Franco Zeffirelli.

Intermezzo musicale

Tornando a Catullo, il rapporto amoroso con Lesbia ha un epilogo disastroso: il poeta non accetta l’infedeltà della donna e l’aggredisce con insulti, espressioni sferzanti, che la ritraggono nel suo degrado morale.

Triste e delicata la chiusa del componimento in cui Catullo dà l’addio all’amore, dichiara la fine, ormai definitiva, della relazione amorosa:

Voce narrante

Non guardi, come un tempo, al mio amore,

che, per colpa sua, è caduto

come un fiore sul ciglio del prato,

appena è toccato,

                   passando, dall’aratro. (XI, 21-24)

 

Coordinatore: Catullo, compagno fedele, è deluso per il comportamento sleale della donna amata. Una delusione simile affiora nella poesia Francesca del poeta americano Ezra Pound (1885-1972), che amava la poesia di Properzio. Ascoltiamo il componimento di Pound nella versione di Alfredo Lizzardi:

 

Venivi innanzi uscendo dalla notte

Recavi fiori in mano,

Ora uscirai fuori da una folla confusa,

Da un tumulto di parole intorno a te.

Io che ti avevo veduta tra le cose prime

Mi adirai quando sentii dire  il tuo nome

In luoghi volgari.

Avrei voluto che le onde fredde sulla mia mente fluttuassero

E che il mondo inaridisse come una foglia morta,

O come vuota bacca di dente di leone, e fosse spazzato via,

Per poterti ritrovare,

                                                           Sola.                                       (Le poesie scelte)

Coordinatore: Lesbia, amata da Catullo, Cinzia, amata da Properzio, sono donne colte, fini, disinibite, che volgono le spalle al passato, al rigido costume romano e rivendicano la loro autonomia. Tante donne romane della fine del periodo repubblicano non si comportavano

 

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diversamente da una figura letteraria come Cinzia. Properzio canta, in versi carichi di grande passione, l’amore trascinante per questa donna. Ascoltiamo il canto della felicità amorosa.

Cinzia, da poco scomparsa, appare in sogno al poeta che si è appena addormentato e gli rimprovera la sua amnesia, la sua ingratitudine:

Voce narrante

Perfido – nessuna donna, certo, può sperarti migliore –

già dormi tranquillamente?                                                                                                                              Hai già scordato gli incontri furtivi nella strada sempre sveglia del Celio

e la finestra consumata dai miei stratagemmi notturni?

Per la finestra, quante volte, calata una fune, penzolai per te,

venendo, alternando le mani, ad abbracciarti!

Spesso ci amammo in un crocicchio e, stretti stretti,

                        i nostri mantelli intiepidirono la strada.             (IV, 7, 13-20)

Coordinatore: Proprio questa conquistata libertà spiega la nascita di una poesia latina al femminile.

Sulpicia è una giovane poetessa di questo periodo e costituisce una rara voce femminile in lingua latina. Di lei abbiamo un succinto canzoniere, in cui l’appassionata fanciulla canta, in versi pervasi di sincerità, l’amore per il suo ragazzo, Cerinto.

Ecco un suo componimento.

Voce narrante                Ti preoccupi, affettuoso, della tua ragazza, o Cerinto,

ora che la febbre affligge il mio corpo sfinito?

Oh! di liberarmi di questo male fastidioso, certo,

io non mi augurerei, se non pensassi che lo vuoi anche tu.

E che mi gioverebbe guarire della malattia, se tu

riesci a sopportare la mia sofferenza con cuore di pietra? (C.T., III 17)

Coordinatore: Tale liberazione della donna non era ben vista dal potere augusteo, che agitava lo slogan della famiglia e che ne promuoveva la tutela con provvedimenti legislativi come la legge sul celibato, che mise in crisi Properzio.

Quella politica di Augusto fece anche qualche vittima illustre, come il poeta Ovidio che, molto probabilmente, a causa di qualche opera poetica incentrata sull’amore giocoso, dovette sperimentare sulla propria pelle quanto esteso fosse divenuto l’impero romano.

Pure questo poeta birichino, però, scrive componimenti in cui canta la spirituale profondità dell’amore coniugale. Questo affiora, tra l’altro, da un passo della sua opera maggiore, le Metamorfosi: uno scultore di Cipro, Pigmalione, non vuole contrarre matrimonio perché è nauseato della corruzione delle donne della sua terra. Allora scolpisce nell’avorio una fanciulla bellissima, di cui s’innamora. Durante la festa di Venere, prega la dea di poter avere come sposa una fanciulla simile. Torna a casa e s’avvicina alla statua eburnea della fanciulla:

Voce narrante

Chinandosi sul letto, la bacia. Gli pare tiepida.

Accosta di nuovo le labbra, le palpa il seno:

l’avorio, toccato, diviene molle, perde la durezza,

si piega alle dita, cede […].

È colto da stupore e, pur dubbioso, è felice, ma teme d’ingannarsi,

tocca, innamorato, e ritocca la fanciulla del cuore.

Era un corpo vivo!

Allora ringrazia la dea: ora, con le sue labbra

preme  labbra vere. La vergine sentì i suoi baci,

e arrossì, e, levando timidamente gli occhi alla luce,

vede, insieme col cielo, lui che l’ama.

                                             La dea fu presente al matrimonio. (X, 281-284, 287-289, 291-295)

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Coordinatore: Un altro poeta augusteo sedotto dalla vita elegante e disinvolta delle fanciulle romane è il meridionale Orazio, che, da saggio che sa guardare dall’alto alle passioni umane, tra cui quella amorosa, non si lascia cogliere da turbamento: osserva, ammira e sorride. Le sue figure femminili sono belle, seducenti, delineate con garbo, circonfuse sempre di una sottile vena ironica, segno del suo distacco, della sua misura.

Tuttavia, questo poeta disincantato ha scritto il componimento amoroso forse più bello, più toccante. Ci ha comunicato, nella maniera più immediata e più semplice, il senso vero dell’amore: amare è comprendersi, se questo avviene, il rapporto non si spegne, ma dura tutta la vita.

Voce narrante

(Orazio) “Finché ti ero caro

e nessun giovane preferito

abbracciava il tuo candido collo,

io vissi più felice del re di Persia”.

 

(Lidia) “Finché non prendesti una cotta per un’altra

Lidia era trascurata per Cloe,

io Lidia, di grande notorietà,

vissi più famosa della madre di Romolo e Remo”.

 

(Orazio) “Me ora ha in suo potere Cloe di Tracia,

che conosce dolci melodie e suona la cetra;

per lei non avrei paura di affrontare la morte,

purché il destino conceda alla mia cara di vivere”.

 

(Lidia)  “Me brucia di reciproca fiamma

Calai, figlio di Ornito di Turi;

per lui due volte affronterei la morte,

purché il destino conceda al mio ragazzo di vivere”.

 

(Orazio) “E se ritorna l’antico amore

e ricongiunge i separati sotto il suo bronzeo giogo,

se è abbandonata la bionda Cloe

e si riapre la porta alla respinta Lidia?”

 

(Lidia) “Sebbene quello sia più bello di una stella

e tu più leggero di un sughero

e più irascibile del turbinoso Adriatico,

                                  con te amerei vivere, con te vorrei morire”.                (Odi, III 9)

Epilogo Musicale

Coordinatore: Crediamo che questo profondo e sorridente canto oraziano possa costituire una degna conclusione della nostra succinta rassegna di poesia greca e latina.

Giunti, pertanto, alla fine, se la raccolta poetica vi è piaciuta, se la nostra lettura è stata efficace, se le musiche sono state di vostro gradimento, allora, non statevene con le mani in mano, ma fateci un lungo applauso.

 

 

 

 

 

 

 

 

Testo e versione italiana della poesia greca e latina
a cura del prof. Leonardo Di Vasto

Lettura degli studenti del Liceo classico “G. Garibaldi” e del Liceo scientifico “E. Mattei” di Castrovillari: Ferderica Alberti, Camilla Arcidiacono, Katia Armentano, Marie Bellizzi, Marco Ceccherini, Giuliana Di Benedetto, Sabrina Fasanella, Raffaele Ferrara, Umberto Le Voci, Bruno Loiacono, Angela Notari, Rosie Schifino, Chiara Ventura

Preparazione nella lettura del testo a cura del regista Giuseppe Maradei.
Bridges musicali eseguiti dagli studenti: Paolo Bonifati (chitarra), Monica Cafarelli (violino), Felicita Cerbino (chitarra), Miriam Marano (pianoforte), Carmen Morrone (chitarra), Federica Orlando (pianoforte), Carmine Perrone (sassofono), Gianmarco Rubino (pianoforte), Paolo Viceconte (chitarra).
Voci: Cristina Castrofino, Giovanni Palmisano.
Bridges musicali e preparazione degli studenti
a cura della prof.ssa Nunzia Bloise
Proiezione, da un Dvd, sullo schermo del teatro Sybaris dell’aria E lucevan le stelle dalla Tosca di G. Puccini
a cura dello studente Rosario Ferraro

Collaborazione del Liceo classico “G. Garibaldi” di Castrovillari, referente prof.ssa Maria Lucilla Aprile, e del Liceo scientifico “E. Mattei” di Castrovillari, referente prof.ssa Maria Clara Donato.

 

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