CASTROVILLARI CHIUDE il Festival Nazionale della Cultura Classica. Grande successo della rappresentazione delle TROIANE di Euripide al teatro Sybaris

Dal 18 al 25 marzo 2023 si è svolto in tutta Italia il Festival Nazionale della  Cultura Classica promosso dall’omonima associazione. La Delegazione di Castrovillari ha aperto il 18 marzo, con la  partecipazione di docenti e studenti dei licei classici e scientifici, nonché di soci, l’importante evento culturale con la Lectio magistralis “Il teatro in Platone” del prof. Mauro Tulli, ordinario di Lingua e Letteratura greca presso l’Università degli Studi di Pisa, uno dei massimi studiosi a livello internazionale di Platone letterato, e lo ha  chiuso con la rappresentazione  teatrale delle Troiane di Euripide, allestita dall’Associazione culturale Aprustum, con la regia attenta di Casimiro Gatto.

Il presidente della Delegazione A.I.C.C. di Castrovillari, prof. Leonardo Di Vasto, e i numerosi iscritti all’Associazione da più di trent’anni svolgono un ottimo lavoro di sensibilizzazione,  informazione, conoscenza, divulgazione, studio del mondo antico e della cultura classica nella sua accezione più vasta. Intervenendo nelle scuole, nei centri del circondario di Castrovillari, trasmettono, con la collaborazione di docenti delle Università italiane del Settentrione e del Meridione, l’indiscutibile  principio che apprendere, elaborare, scegliere è per i cittadini  il migliore esercizio di libertà e di democrazia.  A tutti loro un grazie di cuore per quanto fanno con impegno, curando sempre la qualità e tenendo alto il livello degli interventi.

A Castrovillari la produzione artistica teatrale si fa adulta, cresce uscendo dal dilettantismo per avviarsi a livelli  di serietà e preparazione di tutto rispetto. Il nutrito gruppo di dilettanti attori e registi castrovillaresi non temono di portare sulla scena lavori complessi come le Troiane di Euripide, dramma talmente difficile da apparire ardimentoso per chiunque faccia teatro.

Arduo anche per lo spettatore: infatti,  il dolore e la morte non danno tregua e il succedersi veloce di avvenimenti funesti, non simbolizzando alcuna soluzione catartica, opprimono e inquietano l’animo di chiunque. Eppure, nelle due rappresentazioni, quella del 24 serale e della pomeridiana del 25 marzo al teatro Sybaris c’è stato un pienone di pubblico.

La vivacità culturale, che caratterizza l’uso del tempo libero in questa bella città ai piedi del Dolcedorme, ha svolto un ruolo positivo nella buona riuscita dello spettacolo che si misura, suo malgrado, con realizzazioni sceniche straordinarie avvicendatesi nell’arco temporale di oltre due millenni e in grandi teatri, luoghi sul mare, dove i suoni e il senso delle parole arrivano all’anima degli spettatori come un naturale respiro.

Inoltre, la presenza numerosa di spettatori attenti lascia ben sperare per la crescita culturale della città e, si sa, civiltà e cultura dovrebbero andare di pari passo.

Parola, bellezza, pensiero, forza catartica e tutto quanto attiene il testo del tragediografo greco è stato proposto con misurata saggezza dalla regia di Casimiro Gatto.

Gli attori hanno raggiunto buona coesione corale, conferendo allo spettacolo quella tensione e unità narrativa che conduce alla rappresentazione efficace del tragico. Ritmo certo, compattezza di voci e di movimento. Indiscutibile la qualità raggiunta sia per  il certosino lavoro di sgrossatura e limatura condotto dalla regia su attori, scenografia, costumi, sia per il talento di alcuni.

In particolare, la recitazione trainante della interprete di Ecuba ha arricchito lo spettacolo di un valore aggiunto. L’attrice si muove con naturale destrezza nella rappresentazione del vissuto della regina troiana, uno dei nodi chiave della tragedia: Ecuba affronta la catastrofe, vive il dolore ma non lo subisce. È forza morale attiva, sostegno per le  fanciulle troiane prigioniere.  Ecuba-Rosamaria ha coinvolto ed emozionato gli spettatori. Ha stupito  e commosso tutti. La sua espressività scenica è istintiva, profonda, controllata, efficace, tale da abbracciare il ruolo e conferirgli il massimo della credibilità letteraria e umana. Non si tratta di identificazione con il personaggio letterario, ma di fargli posto per poterlo guidare nella difficile metamorfosi: passaggio dal silenzio della pagina al rumore della corporeità scenica. In tale difficile lavoro tutti gli attori  hanno portato il loro contribuito: dare voce alla catastrofe.

«Ero regina e mi sono sposata in casa di re, e qui ho generato figli eccellenti – non solo numero, ma i migliori tra i Frigi» (traduzione di Ester Cerbo, atto I, scena III). Il personaggio così presentato dal testo poetico è pronto per diventare fonè, suono dalle mille sfumature di toni vocali, pronto per assumere il gesto della tragedia, emozione viva.  L’Ecuba – Rosamaria dovrà ora affrontare il dolore per la distruzione violenta degli affetti più cari, l’azzeramento del suo orgoglio di regina e di  madre generatrice di eroi, il vuoto del territorio a lei familiare diventato deserto di cenere. Dovrà vedersela con le divinità dell’Olimpo grandi protagonisti invocati ma inutilmente perché considerati «cattivi alleati», v. 469.

Chapeau a chi ha saputo in piccolo spazio scenico rappresentare il compianto delle principesse, delle donne frigie e di Ecuba, regalando a noi spettatori abbrutiti da anni di isolamento, sempre in conflitto con qualcuno, qualcosa o qualche struttura istituzionale di passaggio, il dono della contemplazione e della conoscenza. Non ingannino i due ultimi termini, fanno parte del linguaggio del tranfert teatrale, sono stati trasmessi dallo spettacolo stesso e recepiti da ciascuno con diverse intensità. Grazie, dunque, per il dono, per l’enorme lavoro sostenuto da tutti: regia e attori, tecnici delle luci e del suono, costumi, trucco e altro.

Le Troiane raccontano la distruzione di Ilio rasa al suolo,  narrano di uomini e di eroi assassinati con l’inganno, di donne deportate, di vecchi non rispettati, di indicibili sacrifici umani. Narra, in sintesi, gli orrori della guerra, di tutte le guerre.

Il lavoro, che il poeta rappresentò nell’anno 415 a. C. per la prima volta,  partecipando al concorso drammatico indetto in Atene per le Dionisie, vuole, mentre racconta la distruzione di Troia, destare nel pubblico quella umana pietà che gli sembra sopita nella sensibilità dei contemporanei.

            Il racconto ha inizio in campo acheo, dove, nei pressi della tenda di Agamennone, sono state condotte le troiane prigioniere. È l’alba, le donne sembrano assopite. Non visti, si levano su di loro Poseidone e  Minerva, potenti divinità  mediterranee.  Due giovani attori dall’altezza dei loro sedici anni celestiali, appena usciti dai banchi di scuola parlano del destino dei Greci vincitori a Troia. Atena, protettrice degli Achei prima della guerra, ha cambiato bandiera, è diventata loro ostile per la profanazione del suo tempio durante il saccheggio di Troia. Chiede l’aiuto di Poseidone perché renda difficile il ritorno in patria. Da protetti che erano, i vincitori diventano infelici perseguitati della dea.

Si apre, in tal modo, la ricorrente polemica di Euripide sulla credibilità degli dèi dell’Olimpo greco e su quanto essi decidano o facciano per il destino degli umani. Un Poseidone adolescente e una Minerva fanciulla, felicemente irresponsabili, costruiscono l’immagine sarcastica della rappresentazione del divino e  conferiscono l’input  alle Troiane del Sybaris.

Con il capo rasato e gli abiti del lutto ridotte in cattività Ecuba,  le sue ancelle e la nobiltà frigia si svegliano ad una realtà tragica: la deportazione, la schiavitù in terra straniera.  Ogni segno di potere e ricchezza è scomparso, le troiane si mostrano in tutta la loro povera, penosa, umana essenzialità di donne in balia della crudeltà dei vincitori. Si interrogano sui loro destini, sui luoghi dell’esilio, ma anche sulla guerra, sugli dèi, sulla vita, sulla morte degli innocenti. A tanto sconforto Ecuba sembra far fronte suggerendo rassegnazione. «Sollevati dal suolo, o infelice mia testa, / solleva il collo; tutto questo non è più Troia, / né più noi siamo sovrani di Troia» (traduzione di E. Cerbo, vv. 98-100).

Sopraggiunge, però, la folle Cassandra, la menade. Con la follia si fugge il dolore, perniciosa continuità. La mente sconvolta brucia ogni sentimento, ogni pensiero. La follia è luce: «Tieni alta, porgi, porta la fiamma, / io venero, io illumino – ecco, ecco – / con fiaccole questo luogo sacro /» (traduzione di E. Cerbo, vv. 308-310). Per Cassandra, interpretata con intensità da Maria Francesca, la morte è preferibile al sopruso. Il sopruso e l’ingiustizia sono legge di vita, anzi sono la vita stessa. Le donne sono le protagoniste di questa tragedia. Gli uomini hanno un ruolo secondario. Taltibio è un messaggero e Menelao, reso in modo incisivo da Antonio grazie ad una postura pertinente e alla voce bene impostata, è un eroe diseroicizzato, tutto atteggio e niente sostanza che, col differire la punizione della moglie infedele, Elena, al momento dell’arrivo ad Argo, lascia intuire il suo crollo alla vista di «uno dei suoi impareggiabili seni», per dirla con la scrittrice canadese Margaret Atwood.

Affermazioni forti e di pesante spessore come un rullare di tamburi incalzano gli spettatori. Questi, sotto la pressione stringente della sofferenza gridata fanno gruppo con il coro e con i personaggi sul palcoscenico, entrando in un’area drammatica che potremmo dire archetipica. Gli archètipi, infatti, per la loro imponderabile universalità, vengono subito raccolti dagli spettatori che partecipano anch’essi alla rappresentazione, formando personaggio a sé, vivendo, però, il ruolo contraddittorio e frustrante dell’interlocutore muto. Gli archètipi secondo alcuni non hanno simbolizzazione. Sono l’inconscio stesso. L’inconscio cerca la sua simbolizzazione perché affiori la forza, la potenza distruttiva delle domande archetipiche. Perché la morte? Perché la guerra?

Il solito rovello del pensiero, la solita tenzone interiore si sono formulati anche qui, al Sybaris, confusamente nella mente di ogni spettatore. L’umano ritornello suona sulla scena e sui presenti in teatro ma non riesce a trovare una simbologia che valga una risposta. Quale colpa può avere un bambino? Perché uccidere il piccolo Astianatte, figlio di Ettore e di Andromaca?

In realtà le persone, circa duecento, ben sedute in poltrona erano state già sensibilizzate sull’argomento dal prof. Di Vasto. Questi, concludendo l’introduzione allo spettacolo sul tema Il pacifismo di  Euripide, con la quale ha inquadrato storicamente l’opera e ha sottolineato alcune peculiarità della Weltanschauung del poeta, si era chiesto, a proposito della morte di Astianatte, con toni emotivi forti e senza retorica alcuna, il perché la strage degli innocenti in tutti i tempi. Il grandissimo gruppo dei presenti ha cominciato da quel momento ad elaborare in sé qualcosa di indefinibile.

Frattanto lo spettacolo prosegue. Dopo Cassandra avanza Andromaca che conduce il figlio Astianatte. Informa Ecuba della morte di Polìssena sgozzata sulla tomba di Achille. Lamenta il suo destino e nel dialogo non lascia spazio alla speranza. Taltibio riferisce alle prigioniere la decisione del consiglio di guerra acheo. Astianatte sarà ucciso. Gli Achei ne hanno paura. Sì, proprio così, paura di un bambino.

Gli spettatori assorti, non si sa quanto coscienti sono incalzati dall’eterna domanda: perché? E se ne stanno fermi, inchiodati alle loro sedie che diventano sempre più scomode. «Lo spettatore è occhio contemplante, testimone di ciò che in termini di vita e di morte accade. Il teatro greco è l’immagine perfetta, incide nella pietra e nello spazio, della vita e del cosmo come conoscenza, contemplazione. Il teatro greco è spazio sacro. È rito collettivo, che coinvolge attori e spettatori in un accadimento iniziatico essoterico – nel senso che introduce una collettività e un’esperienza sapienziale – le cui radici affondano nella tradizione misterica» (A. Tonelli). La tragedia greca nasce dal culto dionisiaco e catarsi, termine della filosofia pitagorica, significa purificazione, liberazione dalle passioni più basse. E qui, al Sybaris, che cosa è successo?

Dopo gli applausi, a sipario chiuso, alcuni spettatori, invece di abbandonare il teatro lentamente e tranquillamente come sempre succede, hanno fatto capannelli per discutere e argomentare, come avveniva ad Atene all’uscita dal teatro di Dionìso. Altri si sono disposti in lunga fila davanti agli spogliatoi per salutare gli attori tutti. Cercavano Ecuba – Rosamaria alla quale avevano riconosciuto, in parti inesplorate del loro pensiero inconscio, una funzione terapeutica, cioè la forza maieutica capace di operare la complessa, difficile, inesprimibile operazione di transfert.

I più giovani, coinvolti dalla follia distruttiva ma libera e liberatrice della menade, volevano salutare Cassandra-Mariafrancesca. Altri ancora, dietro le quinte, chiamavano il prof. Di Vasto, che, con l’istituzione nel 1986 a Castrovillari della Delegazione A.I.C.C., ha dato la possibilità a docenti, studenti, cultori del mondo classico, a intellettuali, in genere, come ha detto nella presentazione la prof.ssa Lucilla Aprile, docente del Liceo classico e VicePresidente della Delegazione, di confrontarsi con italianisti come Giulio Ferroni e Alfonso Berardinelli, latinisti come Giovanni Polara, Mario Geymonat, Scevola Mariotti, grecisti come Marcello Gigante, Fritz Bornmann, Giuseppe Mastromarco, bizantinisti come Filippo Burgarella, André Guillou, Vera von Falkenhausen.

 

Eliana Rusciani